lunedì 26 maggio 2008

Il masso di Mandringa

A Volterra esiste un posto speciale: il masso di Mandringa, dove, nella fonte sottostante, narra la leggenda che si riunissero di notte le streghe!

Un posto sconosciuto ai più che non ha niente che ti possa colpire. E’ solo un grosso masso con un’apertura che conduce alla sottostante fonte.

Poche le notizie su questa leggenda, le uniche si trovano nel libro “Volterra magica e misteriosa” e sono rintracciabili anche sul web.

Questo è ciò che si legge:
Se fu facile per San Barbato abbattere il secolare Noce di Benevento e disperdere cosi le migliaia di streghe che vi si davano convegno, le difficoltà che avrebbe incontrato a Volterra sarebbero state tanto sovrumane da fargli perdere la speranza di poter sfrattare da Mandringa le malefiche allieve di Satana che schiamazzando vi si radunavano la notte del sabato. Un conto fu tagliare l’albero, per quanto maestoso, e costruire sulle sue radici una chiesa; un altro conto invece sarebbe stato distruggere quell’enorme masso che si staglia possente verso il cielo, sulla strada di Badia, avvolto nell’edera, nei rovi e nella madreselva. Ai suoi piedi, sotto l’arco duecentesco, sgorga da sempre un’acqua limpida e pura, ritenuta in ogni tempo la migliore della città:
"Chi sciacqua le lenzuola / alla Docciola, - ricordava il D’Annunzio nel Forse che si forse che no - convien che l’acqua attinga / alla Mandringa".
Attorno al masso, di giorno, ero tutto un vai e vieni di donne e di ragazzi, un continuo ciarlare spensierato che accompagnava la lunga teoria di brocche e di mezzine di rame assetate di quell’acqua fresca e gorgogliante. Ma di notte, il sabato notte, poco prima che l’orologio di Piazza scandisse la fine di un altro giorno, un fruscio lento e rabbrividente penetrava l’aria gia greve e pregna di zolfo, seguito da un brusio che, sempre più marcato ed intenso, faceva da macabro preludio alla vorticosa danza delle streghe. Le donne e i ragazzi ascoltavano terrorizzati nel dormiveglia le voci stridule e sghignazzanti delle streghe e, quando il lugubre stridio della civetta e il lamentoso miagolio dei gatti annunciavano l’arrivo di altre entità malvagie, neppure gli uomini avevano il coraggio di uscire di casa. Sull’orlo delle Balze, un’altra notte di tregenda si stava consumando in onore del Principe delle Tenebre, ai piedi delle antiche mura, fra il sacro tempio dei Patroni e il diruto cenobio dei Camaldolesi.
tratto da "Volterra magica e misteriosa" di Franco Porretti

Bucaiole c'è le paste!

Non è un offesa, ma un antico modo di dire fiorentinissimo.

Il bucaiolo era l'antico negoziante delle "buche", ovvero quei negozi del mercato di San Lorenzo che erano posti al di sotto del livello stradale, di fatto....in "buca".

All'ora di pranzo quando passavano i carri con le vivande erano soliti chiamare a raccolta i negozianti con questo grido:

"Bucaioli...c'è le paste!"

martedì 6 maggio 2008

La pietra della vergogna

Nelle Logge del “Mercato Nuovo” in Porta Rossa – generalmente chiamate “Logge del Porcellino” – si trova un cerchio, formato da spicchi di marmo, che rappresenta una ruota.

Si tratta della ruota del “Carroccio” che sostava proprio in quel punto per adunare le milizie in partenza per la guerra.

Questa pietra, nel Rinascimento, era usata per una pena davvero singolare: il magistrato del Bargello condannava i frodatori, i falsari, i bancarottieri e i debitori insolventi a batterci più volte il sedere denudato - nelle ore di maggiore affluenza dei Fiorentini.

La pena, più morale che fisica, ricorda le penitenze di antica tradizione medievale; un’esposizione al pubblico ludibrio per dissuadere i disonesti e segnalare ai cittadini le persone inaffidabili nel mondo degli affari – informazione davvero molto importante in una città mercantile come Firenze.

lunedì 5 maggio 2008

Caterina Picchena

Era una dissoluta od una ribelle? Certamente, data l'epoca in cui visse, fu un anticipatrice del femminismo e delle moderne telenovele.

Ma chi era questa donna rivoluzionaria?
La storia che vogliamo riassumervi è quella di Caterina Picchena: marchesa, ereditiera di uno dei più noti casati di San Gimignano; dal padre potentissimo che era quel Curzio Picchena che fu Segretario di Stato del Granduca Cosimo II de' Medici e Senatore.

Caterina orfana di madre fu educata da un Parroco e da un Abate che ben presto approfittarono della sua straordinaria bellezza. Incinta a 15 anni e con ragionevoli dubbi sulla paternità, fu fatta sposare al Marchese Lorenzo di Altobianco Buondelmonti dal buon casato, ma gravemente malato di tisi.
Caterina Picchena garantì "regolarmente" un erede al Buondelmonti, a cui fu dato il nome di Mondino. Ma la vita coniugale, con una marito malato era noiosa e la nostra si trovo ben presto un amante in un paggio del Cardinale Carlo de' Medici fratello del Granduca.
Dopo due anni partorì un altro maschietto con gran gioia di marito ed amante! L'adulterio occultamente amministrato si protrasse fino a che il Buondelmonti, finito dalla tisi non rese l'anima a Dio.

Vedova a 32 anni, la Picchena era decisa a sposare il suo paggio ma non avena fatto i conti con il Cardinale de' Medici - padrone del suo paggio - che notoriamente lussurioso voleva Caterina per se ed obbligò il suo paggio a combinare un incontro.
Scoperto l'inganno, la marchesa venne scacciata dal Cardinale e fu soccorsa da un abile spadaccino francese, l'aitante Capitano Marziale Frains d'Aix. Non solo per riconoscenza, la Picchena si invaghì di lui, e promise di sposarlo a patto che avesse sfidato a duello il paggio traditore. Duello che avvenne regolarmente ed in cui il paggio ci lasciò la vita. Ma i guai per Caterina Picchena non erano certo finiti.
Nella sua vita si inserì il cognato Don Alessandro Buondelmonti pievano di Impruneta, che intendeva arricchirsi facendo fare carriera eclesiastica ai due marchesini e non era quindi daccodo sul fatto che Caterina sposasse il suo francese. Ma i tempi stringevano poiché ella era nuovamente incinta e il cognato impose di avere il terzo figlio come figlio naturale (cosa fra l'altro di moda fra i nobili). Nacque così un terzo maschietto, senza casato, a cui venne dato il nome del nonno: Curzio.
Sfortuna volle che l'uccisione del paggio fosse scoperta e così il Granduca fece rinchiudere Caterina Picchena in un ospizio per donne traviate e il francese obbligato a sparire in Francia. Ben presto, però, chiese ed ottenne la grazia a patto che si isolasse, con il figlio, nel suo castello. La sua irruenza la portò ben presto, anche per la nostalgia del suo francese, a fuggire. Si imbarcò da Livorno con il figlio su un peschereggio e giunta in Francia, riuscì a rintracciare lo spadaccino; che però, dopo averle spillato una bella somma di danaro, sparì questa volta di sua volontà.

Disperata la Picchena, che voleva dare un padre al suo figlio, si decise a sposare il pescatore che l'aveva condotta in Francia che aveva 20 anni meno di lei.
Tornata in Italia, sperava che tutti si fossero dimenticati di lei; ma così non fu perché i perfidi Don Alessandro ed il Cardinale de'Medici, intervennero presso il Granduca riesumando tutte le accuse contro di lei. Accusata di libidine, scandalo per le sue nozze con il giovane pescatore e per la violazione dell'isolamento a Picchena, venne rinchiusa, senza processo nella fortezza di Volterra. Non le fu concesso né di uscire di cella, né di avere colloqui con il figlio Curzio che le venne sottratto e di cui non si seppe più nulla. Al marito fu imposto di lasciare la Toscana entro le 24 ore.

Persa questa volta ogni speranza, Caterina Picchena si ridusse ad uno stato bestiale e morì in carcere, dimenticata dal mondo a 50 anni.